ARDAU + CALÍ
Titolo: Acqua, verde profondo
Installazione: stampa plotter su acetato, smalto,
olio d'oliva
Dimensione: ambiente
Vischioso e irriverente è il liquido che cola dall'installazione
delle giovanissime Ardau+Calì, avvolgente è, invece,
la sua dimensione spaziale: una grotta, con tutte le valenze simboliche
di cui, fin dalle origini, tale spazio è andato caricandosi
sia in ambito cultuale, sia nella sfera inerente alla sessualità,
sia, infine, nella psicanalisi, per la quale entrare nella grotta/caverna
ha il significato di un ritorno nel grembo materno, una regressione
nell'oscurità della vita prenatale, desiderata e rassicurante.
Le due artiste, in un complesso gioco di rimandi, hanno costruito
una grotta nella grotta, sovrapponendo strati di acetato stampati
con delle enormi vulve colorate di un " verde profondo"
di grande impatto visivo. Lo spazio, postmoderno e arcano, protettivo
e umido, acquoso nel gioco di trasparenze e di riflessi, riacquista
e amplifica così tutta la sua forza simbolica e archetipa.
In esso il liquido amniotico si fonde coi più ostentati umori
sessuali che si concretizzano, con disinvolta ironia, in reali colature
di olio d'oliva. Un sapiente e disincantato gioco di generi artistici
raffredda le immagini crudamente realistiche con procedimenti computerizzati,
restituendo loro virulenza espressiva attraverso interventi pittorici
manuali. Alternando un glaciale distacco a una forte partecipazione
gestuale ed emotiva e caricando di esplicite e provocatorie connotazioni
erotiche l'installazione, Ardau+Calì costringono lo spettatore
a un intrigante rapporto empatico al quale è difficile sottrarsi.
Come un gioco psicologico, le vulve/farfalle somigliano a incombenti
macchie di Rorschach, capaci di far affiorare, quasi in un processo
di automatismo psichico, aspetti profondi e oscuri della personalità
di ciascuno, nonostante, nell'intenzione di delle artiste, non vogliano
essere altro che l'esteriorizzazione fisica ed estetica di un processo
tutto interiore e autoreferenziale. Una provocatoria rilettura della
courbettiana Origine del mondo, seppure in un'ottica tutta interna
all'universo femminile.
ERIK CHEVALIER
Titolo: La pioggia delle danze
Installazione: legno, ferro, terra, acrilici,
video
Dimensione: ambiente
La pioggia delle danze è un'opera di forte impronta concettuale,
giocata sull'inaffidabilità della percezione sensoriale di
fronte alla quotidianità e ai suoi riti, un'inaffidabilità
che genera equivoci, spaesamenti e ambiguità. La più
scontata normalità, mummificata e ridotta a reperto probatorio,
acquista un'insospettabile precarietà, tutto appare innocuo
ma, in realtà, diventa possibile vettore di storie e memorie
per niente tranquillizzanti. L'artista imbalsama oggetti d'uso comune
quali coltelli da cucina, banconote, forbici e fogli stampati e
li illumina con una comunissima lampada da tavolo. L'insieme, sciatto
e trasandato quale può essere quello di una dimensione domestica,
non ne possiede la rassicurante banalità. Tutto appare disposto
con un ordine eccessivo e "sospetto" che rimanda ad altro,
come ad altro, una verità sotto la crosta dell'apparenza,
rimanda anche un simbolico vulcano di terra dal quale filtra una
fioca luce rossastra. Gli oggetti sono "incriminati" e
divengono latori di funzioni inedite. Sono messaggeri di riti collettivi
anch'essi "criminalizzati" e dei quali parla, in uno dei
frammenti cartacei depositato sul tavolo, l'antropologo Omar Falladhi
quando osserva che "presso le popolazioni occidentali le cerimonie
politiche e religiose dedicate alla speranza di un futuro migliore
o alla salvezza dello spirito non hanno lo scopo di provocare miglioramenti
o salvezza, ma di drammatizzare la dipendenza collettiva dalla speranza
e, di conseguenza, rafforzare l'unità e l'identità
del gruppo". Pertanto, come la danza della pioggia non intende
chiedere la pioggia quanto, semmai, sottolineare la compattezza
della comunità di fronte all'emergenza, così, La pioggia
delle danze allude al un tentativo, vano e frustrante, di sottrarsi
a tali riti collettivi per riacquistare la libertà della
solitudine. Una conferma viene, in tal senso, dal video in cui compare
un omino virtuale che cerca di uscire, anch'esso inutilmente, dal
vicolo cieco nel quale si è infilato o è stato costretto.
ANTONELLO OTTONELLO
Titolo: Senza titolo
Installazione: bambù, latta, legno,
ferro, terracotta, spago, ricci di mare, semi di mogano
Dimensione: ambiente
Da tempo Antonello Ottonello allestisce le sue installazioni utilizzando
frammenti di realtà - in modo pressoché esclusivo
elementi naturali -, ricontestualizzati e resi "artistici"
tramite complessi e sorprendenti accostamenti. Senza cadere nell'ecologismo
di maniera o in stucchevoli e modaiole situazioni New Age, per Stanze
2001 taglia diagonalmente la grotta lunga del Man Ray con una teoria
di lance in canna di bambù assemblate in cinque gruppi di
tre, negandone l'aspetto offensivo e caricandole, piuttosto, di
un'improbabile e vagamente surreale dimensione araldica. Le lance
reggono infatti terrecotte decorate e sagomate a mo' di arcaiche
protomi animali, ricci di mare, bizzarri semi di mogano, pezzi di
latta capricciosamente accartocciati e si prestano a una lettura
polisemica: consapevoli citazioni di sculture di maestri del Novecento
del calibro di Picasso e Mirò, dei quali recupero l'aspetto
più ludico e vitalistico, fantastiche produzioni di un artista/bambino,
insegne di oscure confraternite dedite a chissà quali culti
misterici, o, forse, nella loro essenzialità, emblemi di
una natura rinsecchita e ridotta a inutile simulacro di se stessa.
E se quest'ultima, con la sua carica di negatività, fosse
la prospettiva privilegiata, le lance e i suoi terminali assurgerebbero
al ruolo di inquietanti correlativi oggettivi di montaliana memoria,
come lo erano per il poeta di Ossi di seppia "il rivo strozzato
che gorgoglia", "l'incartocciarsi della foglia riarsa",
"il cavallo stramazzato" e, ancora, i suoi invalicabili
muri con sopra i "cocci aguzzi di bottiglia", il "male
di vivere" insomma. Così, al di là del più
immediato rimando a una situazione di incombente e drammatica desertificazione
ambientale, quest'installazione evoca ben altri "deserti"
mentali e spirituali. Ma, pur enfatizzati da una dimensione in bilico
tra metafisica e surrealismo, tali deserti sono riletti dall'artista
con supremo distacco o, più precisamente e grazie alla vivificante
acqua dell'ironia, con la lucida consapevolezza della "divina
Indifferenza".
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