Fra i tratti tipici dell'architettura romanica elaborata in Toscana
e in Sardegna nel XII secolo c'è la definizione bicroma del
paramento murario, cioè l'alternanza di filari di pietre di
colore chiaro ad altri di colore scuro, fino a ottenere quella regolare
listatura o - se preferiamo - "zebratura", che contraddistingue
sia la facciata del duomo di Pisa e il fianco del S. Giovanni fuorcivitas
di Pistoia, sia l'abbazia della SS. Trinità di Saccargia e
l'ex cattedrale di S. Pietro di Sorres.
Tuttavia neanche in questo caso è propriamente lecito parlare
di "Romanico in bianco e nero": infatti, la pietra chiara
è di volta in volta marmo, trachite oppure calcare dalle
intonazioni fredde o dorate, mentre quella scura è marmo,
trachite bruna o basalto, a seconda della composizione litologica
dei suoli nelle diverse aree geografiche, in Toscana come in Sardegna.
Il "colore" dell'architettura ne rivela così il
nesso ineludibile con il paesaggio, che è appunto geografico
e storico nel senso pieno del temine. E se il Romanico è
essenzialmente una cultura della pietra, allora fra le sue terre
di elezione non potrà mancare, come non manca, la Sardegna,
dove l'idea stessa del Romanico si lega indissolubilmente con quella
della pietra: è la disponibilità di un tipo litico
anziché d'un altro, in un determinato luogo, che determina
il "colore" dell'architettura romanica locale.
Nel suo aspetto documentario, il rilevamento fotografico del monumento
di età romanica non può dunque prescindere, oggi,
dall'elemento "colore", nonostante una lunga tradizione
di pubblicazioni in campo architettonico e "in bianco e nero"
vanti - anche per l'isola - indiscussi capolavori editoriali come
il volume L'architettura del Medioevo in Sardegna, di Raffaello
Delogu (Roma, La Libreria dello Stato, 1953), corredato dalle bellissime
fotografie del Gabinetto Fotografico Nazionale. Tradizione, questa,
che risale alla secca perfezione formale dei fratelli Alinari, e
dell'architettura seleziona dunque ciò che meno si lega al
suo inserimento nel paesaggio - il "colore" - e invece
quello che maggiormente la sottrae al contesto, collocandola nella
dimensione sublimata, che è dell'opera d'arte.
Così "astratta" dal suo contesto paesaggistico,
l'architettura ci si rivela come puro evento, ogni volta rinnovato
dalla visione; così decontestualizzato, il monumento non
è significativo in quanto ripresa descrittiva in sé
e per sé (facciata/fianco/abside/interno) bensì per
il dettaglio che emerge dall'ombra, a profilarsi nitido nella luce
accecante di contrasti duri e decisi. Una volta accantonato qualsiasi
proposito d'una fredda documentazione "scientifica", monumento
e dettaglio riacquistano di colpo quella capacità straniante
nei confronti del reale, in grado di trasformare il momento della
visione in un'autentica esperienza: dello spazio, del campo, della
visuale, della "prospettiva", dell'architettura come scultura.
Credo che in questa direzione, pi che in quella della fotografia
documentaria, vada cercata la chiave per leggere la ricerca formale
di Andrea Mele sull'architettura romanica in Sardegna: non nell'ottica
d'una compiutezza o di esigenze scientifiche o didattiche, piuttosto
sul filo di quella sottile emozione estetica, che lega la "drammatica"
visione di scorcio della facciata di S. Maria di Tratalias alla
vertigine dell'avvolgimento spiraliforme della colonna di Santa
Giusta, la "stranezza" delle figurette umane nel capitello
di Dolianova agli indecifrabili andamenti - quasi una scrittura
sconosciuta - nel dettaglio ravvicinato del prospetto principale
di S. Nicola di Trullas. Il procedimento è semplice e chiaro
allo stesso tempo: si tratta di individuare un motivo e di "astrarlo"
dal contesto architettonico, affinché nella decontestualizzazione
perda ogni legame organico con il monumento, così come il
bianco e nero ha privato quello d'ogni legame organico con il paesaggio.
Una volta "astratto" il motivo, sarà la sua specifica
texture a parlarci con più evidenza, e con maggiore coinvolgimento
emozionale.
Fra tutte, la foto che mi sembra emblematica dell'intera operazione:
il decoro geometrico nella cornice della S. Maria di Uta, un nastro
traforato che ritorna su se stesso, pigro e sferzante, sempre uguale
negli spigoli e nelle sue curve, eppure - quasi impercettibilmente
- sempre diverso. Metafora della poesia, forse, se è vero
che le ornamentazioni romaniche riproducevano forme e ritmi della
struttura letteraria; metafora della musica, è probabile,
se nell'iterazione del motivo vogliamo leggere il ripetersi di un
ritornello, di una cadenza come nel canto dello strumento o della
voce; metafora dell'arte, certo, che puntualmente "astrae"
dall'imitazione delle forme naturali e ritorna a scoprire, appunto,
il piacere dell'astratto.
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