Per un romanico in bianco e nero
Andrea MELE

Centro Culturale Man Ray - Cagliari (20 - 31 marzo 1999)

 

IMMAGINI


 

ROBERTO CORONEO (Ricercatore di storia dell'Arte Medievale - Università di Cagliari)


Fra i tratti tipici dell'architettura romanica elaborata in Toscana e in Sardegna nel XII secolo c'è la definizione bicroma del paramento murario, cioè l'alternanza di filari di pietre di colore chiaro ad altri di colore scuro, fino a ottenere quella regolare listatura o - se preferiamo - "zebratura", che contraddistingue sia la facciata del duomo di Pisa e il fianco del S. Giovanni fuorcivitas di Pistoia, sia l'abbazia della SS. Trinità di Saccargia e l'ex cattedrale di S. Pietro di Sorres.

Tuttavia neanche in questo caso è propriamente lecito parlare di "Romanico in bianco e nero": infatti, la pietra chiara è di volta in volta marmo, trachite oppure calcare dalle intonazioni fredde o dorate, mentre quella scura è marmo, trachite bruna o basalto, a seconda della composizione litologica dei suoli nelle diverse aree geografiche, in Toscana come in Sardegna. Il "colore" dell'architettura ne rivela così il nesso ineludibile con il paesaggio, che è appunto geografico e storico nel senso pieno del temine. E se il Romanico è essenzialmente una cultura della pietra, allora fra le sue terre di elezione non potrà mancare, come non manca, la Sardegna, dove l'idea stessa del Romanico si lega indissolubilmente con quella della pietra: è la disponibilità di un tipo litico anziché d'un altro, in un determinato luogo, che determina il "colore" dell'architettura romanica locale.

Nel suo aspetto documentario, il rilevamento fotografico del monumento di età romanica non può dunque prescindere, oggi, dall'elemento "colore", nonostante una lunga tradizione di pubblicazioni in campo architettonico e "in bianco e nero" vanti - anche per l'isola - indiscussi capolavori editoriali come il volume L'architettura del Medioevo in Sardegna, di Raffaello Delogu (Roma, La Libreria dello Stato, 1953), corredato dalle bellissime fotografie del Gabinetto Fotografico Nazionale. Tradizione, questa, che risale alla secca perfezione formale dei fratelli Alinari, e dell'architettura seleziona dunque ciò che meno si lega al suo inserimento nel paesaggio - il "colore" - e invece quello che maggiormente la sottrae al contesto, collocandola nella dimensione sublimata, che è dell'opera d'arte.

Così "astratta" dal suo contesto paesaggistico, l'architettura ci si rivela come puro evento, ogni volta rinnovato dalla visione; così decontestualizzato, il monumento non è significativo in quanto ripresa descrittiva in sé e per sé (facciata/fianco/abside/interno) bensì per il dettaglio che emerge dall'ombra, a profilarsi nitido nella luce accecante di contrasti duri e decisi. Una volta accantonato qualsiasi proposito d'una fredda documentazione "scientifica", monumento e dettaglio riacquistano di colpo quella capacità straniante nei confronti del reale, in grado di trasformare il momento della visione in un'autentica esperienza: dello spazio, del campo, della visuale, della "prospettiva", dell'architettura come scultura.

Credo che in questa direzione, pi che in quella della fotografia documentaria, vada cercata la chiave per leggere la ricerca formale di Andrea Mele sull'architettura romanica in Sardegna: non nell'ottica d'una compiutezza o di esigenze scientifiche o didattiche, piuttosto sul filo di quella sottile emozione estetica, che lega la "drammatica" visione di scorcio della facciata di S. Maria di Tratalias alla vertigine dell'avvolgimento spiraliforme della colonna di Santa Giusta, la "stranezza" delle figurette umane nel capitello di Dolianova agli indecifrabili andamenti - quasi una scrittura sconosciuta - nel dettaglio ravvicinato del prospetto principale di S. Nicola di Trullas. Il procedimento è semplice e chiaro allo stesso tempo: si tratta di individuare un motivo e di "astrarlo" dal contesto architettonico, affinché nella decontestualizzazione perda ogni legame organico con il monumento, così come il bianco e nero ha privato quello d'ogni legame organico con il paesaggio. Una volta "astratto" il motivo, sarà la sua specifica texture a parlarci con più evidenza, e con maggiore coinvolgimento emozionale.

Fra tutte, la foto che mi sembra emblematica dell'intera operazione: il decoro geometrico nella cornice della S. Maria di Uta, un nastro traforato che ritorna su se stesso, pigro e sferzante, sempre uguale negli spigoli e nelle sue curve, eppure - quasi impercettibilmente - sempre diverso. Metafora della poesia, forse, se è vero che le ornamentazioni romaniche riproducevano forme e ritmi della struttura letteraria; metafora della musica, è probabile, se nell'iterazione del motivo vogliamo leggere il ripetersi di un ritornello, di una cadenza come nel canto dello strumento o della voce; metafora dell'arte, certo, che puntualmente "astrae" dall'imitazione delle forme naturali e ritorna a scoprire, appunto, il piacere dell'astratto.